OGNI 1 DEL MESE:
RUBRICA A Cura Di Don Riccardo Pane,
Diocesi Di Bologna,
Accademia Ambrosiana
DALL’EUCARISTIA CELEBRATA ALL’EUCARISTIA ADORATA (6°)
Nell’ultimo nostro intervento avevamo lasciato in sospeso una domanda: esiste un culmine della Messa? Certamente, esiste ed è tanto più importante quanto più è trascurato. Mi riferisco alla preghiera eucaristica; tutta la preghiera eucaristica, intendo, non solo le parole sante dell’istituzione! La preghiera eucaristica inizia con un invito solenne a elevare i nostri cuori al Signore, ma è veramente così? Ho l’impressione invece che in quel momento inizi solo il solenne assopimento dei fedeli, favorito dallo stile spesso trasandato e discorsivo del celebrante. Tocca non di rado assistere a offertori più curati (e stravaganti) di quanto lo sia la preghiera eucaristica…
Quest’ultima non inizia – è bene ricordarlo – dopo il canto del Santo, ma prima, con
il prefazio, che – siamo sinceri – nessuno ascolta, e invece è molto importante e caratterizzante: nel prefazio si rende grazie per un aspetto particolare della storia della salvezza, legato al giorno liturgico specifico, e “rendimento di grazie” è proprio il significato del termine “eucaristia”. Diamo alla Messa e al SS. Sacramento il nome di “rendimento di grazie”, e trascuriamo il momento della Messa in cui tale rendimento di grazie emerge esplicitamente! Gli orientali, che non conoscono la sintesi, nelle loro preghiere eucaristiche fanno memoria di tutta la storia della salvezza (ne abbiamo un esempio nel nostro canone IV, che è infatti ispirato a un’anafora orientale attribuita a san Basilio); noi latini, invece, siamo più essenziali e ogni volta focalizziamo un aspetto di cui fare grata memoria. Resta il fatto che tale aspetto esemplare è importante, e va valorizzato col canto da parte del celebrante, e con l’attenta partecipazione dell’assemblea.
Poi segue il canto del Santo: non è un intermezzo musicale, bensì ci ricorda che in quel momento noi stiamo uscendo dallo spazio e dal tempo, e stiamo entrando in punta di piedi nella liturgia celeste. Segue poi il canone: dopo la riforma del Concilio Vaticano II la liturgia latina conosce una varietà di possibilità, alcune delle quali ben riuscite, altre meno, molto meno…, ma mi permetto di ricordare che il canone proprio e tradizionale della liturgia latina è il primo, o Canone Romano: perché lo si usa, quando va bene, solo il Giovedì santo? Forse perché “troppo lungo”? Non varrebbe la pena accorciare l’omelia e le preghiere dei fedeli, e le presentazioni dei doni, per dare spazio a tanta ricchezza teologica e spirituale, che gli altri canoni non hanno? Certamente, quale che sia il canone scelto dal celebrante, quelle parole e quella preghiera va ascoltata e partecipata con il massimo della devozione di cui siamo capaci, intendo raccoglimento e silenzio, che non devono essere limitati alle parole dell’istituzione, quasi fossero parole magiche contornate da parole inutili e non degne della massima considerazione! Tutta la preghiera eucaristica, dal dialogo del prefazio alla dossologia finale dovrebbe godere della medesima attenzione e partecipazione!
Questa volta so di aver scontentato e scandalizzato molti liturgisti, non solo per la mia apologia del Canone Romano e le riserve gettate su altre preghiere eucaristiche (che però mi sono ben guardato da citare per nome…), ma anche perché ho parlato di un culmine della Messa. Sì, perché oggi usa molto parlare delle due mense, quella della Parola e quella dell’Eucaristia, definizione che personalmente non amo, non solo perché è riduttivo riferirsi alla Messa come a una mensa (la Messa è memoriale del sacrificio pasquale del Signore, e non dell’ultima cena, la quale a sua volta ne era un’anticipazione), ma anche perché unico è il mistero celebrato, come unico è il Verbo di Dio, soggetto della rivelazione, che si fa carne e dà la propria vita per la nostra salvezza. Così quella stessa Parola proclamata nella prima parte della liturgia, e che rivela il mistero della salvezza, viene proferita sul pane e sul vino, e poiché è Parola divina, viva e vera, essa non si limita a descrivere una realtà già data (altrimenti sarebbe parola umana), ma è Parola performativa, che opera quello che dice: “questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue”. Ma mi rendo conto di essere fuori moda, oggi che anche architettonicamente non c’è più la centralità assoluta dell’altare, ma una serie di poli: altare, ambone, e poi tabernacolo (quando esso sia reperibile, e non nascosto come il ripostiglio delle scope…), cartelloni pastoral-pubblicitari… Per questo continuo a sentirmi a mio agio più nelle chiese orientali che in tante chiese latine moderne o riadattate…